Corpi violati corpi ri-velati

18 Dicembre 2005
santunio

Le donne al centro dei conflitti politici, culturali, sociali e religiosi
Riflessioni e letture
(dicembre 2005) 

Di nuovo troviamo donne, corpi  femminili, come posta in gioco del cosiddetto scontro di civiltà. Il passaggio all’inciviltà è questione di poco.

                                                                       (Ida Dominijanni)

 Le riflessioni ed i brani contenuti in questo fascicolo si riferiscono all’iniziativa omonima, che si è tenuta il 2 dicembre 2005 presso la Sala Biagi D’Antona, Via La Pira, 54 a Castel Maggiore (BO)

 PRESENTAZIONE

Il nostro gruppo – RoseRosse Donne democratiche e di sinistra – ha ormai parecchi anni di vita e ha realizzato diverse iniziative politiche e culturali, avendo sempre come riferimento la condizione delle donne nella società.

Il progetto al quale abbiamo lavorato dall’autunno scorso e i cui risultati vengono qui illustrati ha un titolo forse un po’ generico: più specificatamente intendiamo ragionare sull’uso che viene fatto del corpo delle donne nei diversi conflitti, sia in tempo di guerra, sia in tempo di pace.

Il tema è uno di quelli storici dell’analisi femminista, e ci sono molti esempi da cui partire per illustrarlo; pensiamo, per quanto ci riguarda da vicino, alla questione della legge sulla fecondazione assistita: qui – in occasione del referendum della scorsa primavera – sul corpo delle donne si sono giocati i rapporti tra le forze politiche, i rapporti tra queste e le gerarchie ecclesiastiche, la concezione laica dello stato. E sappiamo come è andata a finire.

Dietro tutto questo c’è evidentemente una grande paura: quella nei confronti della potenza riproduttiva delle donne, potere intuitivamente fondamentale – visto che è quello che garantisce la continuità della specie – a cui bisogna porre dei limiti o che bisogna tentare di usare ai propri fini. Storicamente, tutte le religioni monoteiste lo hanno fatto.

Abbiamo detto che questo tema è uno di quelli storici nella riflessione delle donne, ma ci è sembrato che ci fossero aspetti nuovi su cui era importante ragionare e tentare di capire di più.

I temi su cui abbiamo quindi fermato la nostra attenzione sono: gli stupri etnici nei conflitti che hanno attraversato la ex Jugoslavia negli anni novanta; la questione delle donne kamikaze in diversi paesi, ma soprattutto in Cecenia; l’introduzione della cosiddetta legge sul velo in Francia.

Che cosa ci ha colpito in questi fatti e qual è, secondo noi, il legame che li tiene insieme? Certo, si tratta di situazioni molto diverse, di fatti che sono avvenuti in realtà molto differenziate l’una dall’altra, ma che hanno in comune proprio l’uso del corpo delle donne. E ci sembra anche importante rilevare come siano numerose le modalità con cui questo viene fatto, dalla più evidente e comprensibile alla più subdola perché meno immediatamente leggibile.

Va anche riconosciuto – e ne siamo consapevoli – che la scelta di riflettere su questi temi è stata anche influenzata dall’attualità (almeno per due di essi), cioè è stata fatta quando era appena successa la strage di Beslan e in Francia era accesissimo il dibattito sulla cosiddetta legge sul velo (ribadiamo: cosiddetta).

Ma è proprio dalla novità che questi episodi rappresentavano che è venuta la nostra necessità di capire di più.

Senza entrare nello specifico dei nostri argomenti che sono trattati nelle pagine seguenti, vorremmo anticipare alcune considerazioni.

Per quanto riguarda gli stupri etnici nella ex Jugoslavia, siamo sicuramente di fronte a uno dei più antichi usi del corpo delle donne nei conflitti armati, ma il fatto che tale uso, con le caratteristiche “razziali” che ha avuto, sia avvenuto ieri l’altro e a due passi da noi, quasi nel cuore dell’Europa, ci è parso significativo, perchè emblematico di cosa la guerra riesca a scatenare, facendo regredire tutti a uno stato primigenio di ferocia che evidentemente nessun progresso civile riesce a eliminare, ma che resta lì, pronto a ricomparire quando ve ne siano le condizioni. E ricordiamo che di episodi di stupro – che hanno riguardato tutte le ‘etnie’ coinvolte – sono stati accusati anche membri delle forze ONU.

La presenza di donne kamikaze è sembrata all’inizio una realtà spiazzante – pur considerando con grande cautela l’osservazione secondo cui le donne sono “naturalmente” buone essendo generatrici di vita – ma la questione si è rapidamente chiarita: nella stragrande maggioranza dei casi le testimonianze ci dicono che si tratta di donne ancora una volta usate, “obbligate” a trasformarsi in kamikaze. Infatti si tratta quasi sempre di donne considerate disonorate nella loro comunità, o rimaste prive di uomini che di loro si facciano carico. E il fatto che questa non sia una scelta è più che dimostrato dal fatto che esse spesso non si fanno saltare in aria, ma sono fatte saltare in aria, da uomini che azionano da lontano i dispositivi per l’esplosione. Si può osservare che non è lasciata loro neanche l’autonomia di suicidarsi, o che gli uomini sanno che le donne sono troppo sagge per uccidere e uccidersi in questo modo.

Il terzo tema – la questione della cosiddetta legge sul velo in Francia – ha sicuramente meno evidenza sotto il profilo che stiamo considerando. Ricordiamo che la legge in questione modifica il codice dell’educazione introducendo il divieto di ostentare simboli religiosi nelle scuole pubbliche francesi: più che condivisibile, no? Ma tutto il dibattito si è concentrato sul velo delle donne islamiche.

Noi abbiamo un grande rispetto per le donne islamiche che scelgono autonomamente – qualsiasi ne sia il motivo – di portare il velo, ma riteniamo lesivo della libertà personale il fatto che molto spesso questo sia il risultato di una imposizione da parte degli uomini della famiglia o dei religiosi. Allo stesso modo consideriamo l’imposizione opposta: non devi portare il velo.

Ma le donne non possono proprio decidere cosa fare di se stesse? E perché la sacrosanta difesa della laicità dello stato deve passare attraverso e sul corpo delle donne? Non è una bella contraddizione?

Per quanto riguarda il nostro metodo di lavoro, all’interno del gruppo abbiamo operato cercando e leggendo documenti e libri, mettendo in comune le conoscenze acquisite, discutendone e cercando di raggiungere riflessioni e opinioni condivise.

Non sempre questo è stato possibile: sulla questione del velo, per esempio, non tutte la pensiamo nello stesso modo; ma abbiamo comunque raggiunto una sintesi che è quella che sarà illustrata trattando dei temi specifici.

La stesura delle riflessioni è stata affidata singolarmente ad alcune componenti del gruppo, che firmano i singoli interventi.

Ciò ci ha consentito non solo di rispettare e dar visibilità – pur all’interno di un lavoro condiviso – alle diverse sensibilità e stili di chi si è assunto l’onere di scrivere, ma anche di tenere conto delle specificità presenti nei nostri temi, che avevano bisogno di un approccio e di una trattazione per alcuni aspetti diversi per ciascuno.

I documenti che seguono – che comprendono anche testimonianze e brani dai volumi che abbiamo utilizzato – sono quindi il risultato della nostra attività. Documenti non di “esperte” dei temi considerati, ma di donne che si augurano di contribuire in questo modo a una maggiore conoscenza del mondo in cui viviamo.

Gruppo RoseRosse  

 

 

 


LO STUPRO ETNICO NELLA EX JUGOSLAVIA

Lo stupro: violenza intrinseca del mondo patriarcale, violenza tragicamente ordinaria in guerre passate, presenti e conosciute, violenza agghiacciante e inenarrabile del nazismo e del razzismo, sempre e comunque, in pace e in guerra, crimine contro il genere femminile.

In tempo di guerra lo stupro è uno strumento freddamente e strategicamente pensato a tavolino, è un’ arma, potente, devastante: la donna è il bottino di guerra e il suo corpo il campo di battaglia.

Se possiamo azzardarci ad affermare che, nel corso dei secoli, le armi si sono evolute, l’aggressività legata alla guerra e la metafora che associa “il fucile e il pene” restano, purtroppo, inalterate e attuali.

L’”imperialismo genetico”, finalizzato alla dominazione e al ripopolamento, utilizzato sin dalla fondazione di Roma dai soldati di Romolo con lo stupro delle Sabine, è stato spesso usato nei secoli successivi: gli Inglesi lo hanno praticato in America nel XVIII secolo, i Giapponesi nel 1937 durante la presa di Nanchino, nel corso del XVI secolo durante le guerre di religione tra protestanti e cattolici, fino a situazioni più vicine alla nostra memoria come in Algeria, in Ruanda e in Bosnia.

La donna, così, oggetto di ogni barbarie, è divenuta di volta in volta il trofeo di guerra ottenuto con il resto dei beni dei vinti, o il mezzo di conquista, oppure come nella ex Jugoslavia, come “utero” è stata espugnata, per essere trasformata in terreno per le generazioni future.

Da qui lo stupro etnico.

Quando l’obiettivo della guerra è la distruzione dell’identità e della cultura del nemico, le donne, per il loro peso culturale e per la loro importanza nella struttura familiare legata alla capacità di procreare, “garanti” quindi dell’identità, diventano il bersaglio privilegiato.

Nel momento in cui viene commesso un atto di violenza sessuale nei confronti di una donna, non si colpisce solo l’onore della vittima, ma più ancora quello del nemico: lo stupro, quindi, quale strumento per umiliare il nemico, a cui  viene così negato il ruolo originario di protettore, diventa simbolo di forza per i vincitori e di debolezza per i vinti.

Il conflitto nella ex Jugoslavia ha perentoriamente impartito una lezione indelebile: lo stupro è uno strumento di guerra, a volte perfino più efficace dell’uccisione dei soldati avversari. Entrare in un piccolo paese, radunare la gente, scegliere alcune donne e violentarle di fronte a tutti si è dimostrato uno strumento utilissimo per rendere un’area etnicamente omogenea.

Ed è stato proprio il sesso a determinare l’individuazione del nemico da colpire; è stata proprio la diversità del corpo femminile ad essere assunta come bersaglio di offesa: la capacità riproduttiva è stata messa al centro di un’operazione di guerra con l’idea paranoica di distruggere una razza facendo generare alle sue donne i figli del nemico.

Nella ex Jugoslavia, la purificazione etnica non è una conseguenza della guerra piuttosto un suo obiettivo raggiunto attraverso uccisioni, pestaggi, stupri, distruzioni di case. 

Fin dagli anni ’40 sono apparsi trattati sull’eliminazione dei musulmani e sull’idea della grande Serbia epurata. 

Il programma del movimento serbo dei cetnici del 1941 riportava chiare istruzioni in merito: “bisogna creare una Serbia etnicamente pura all’interno delle frontiere che inglobano la Serbia, il Montenegro, la Bosnia Erzegovina (…) purgare il territorio dello Stato da tutte le minoranze nazionali e da tutti gli elementi non serbi (…) procedere all’eliminazione delle popolazioni musulmane e croate della Bosnia.”

Cinquant’anni dopo, a metà degli anni ’80, la tesi della grande Serbia etnicamente pura, veniva ripresa da diversi intellettuali (scrittori,  psichiatri …) che contribuivano così alla diffusione di un nazionalismo di tipo fascista attraverso una propaganda mediatica che raccontava delle sevizie che croati e musulmani avrebbero fatto ai loro vicini serbi; ogni croato diventava un ustascia, cioè una reincarnazione dei vecchi massacratori filonazisti, ogni musulmano un integralista fanatico … Quello che, nella ex Jugoslavia, è seguito a questa propaganda è la prova di come la forza di un’idea, per quanto aberrante, può trasformare gli individui, annullare relazioni e affetti, se sostenuta da una persuasione a tappeto.

 “L’identità serba è un’elezione divina che circola per via sessuale con il gene serbo”,  in questo modo, attraverso messaggi di questo tipo che mirano a radicare in maniera paranoica l’odio tra le etnie, lo stupro è stato legittimato quale metodo per attuare la pulizia etnica: migliaia di donne vengono rinchiuse nei campi di stupro, violentate ripetutamente più volte al giorno, umiliate, insultate, picchiate,  messe incinte perché diano alla luce un piccolo “cetnico”.

Le violenze sessuali non hanno risparmiato né le bambine di dieci anni, né le donne di sessanta, ma la violenza dei cetnici si è sfogata soprattutto sulle giovani, che sono state stuprate anche da 30-40 uomini al giorno. 

Queste donne violentate da molti uomini non conoscono l’identità del padre, una volta partorito entrano in una nuova prigione, quella della vergogna, del ricordo presente in maniera indelebile sotto forma di questo bambino che è il loro. Molte hanno abbandonato i figli, altre hanno commesso un infanticidio, quelle che hanno scelto di tenerli devono intraprendere un lungo cammino psicologico prima di riuscire ad amare questi figli e inserirli fra la propria prole: sono frutto di una gravidanza di guerra, figli dell’odio, figli non desiderati, figli di un brutto ricordo.  Doppiamente colpite nella loro persona e negli affetti più cari, molte donne della ex Jugoslavia sono andate maturando dentro desideri di vendetta che le hanno spesso portate ad imbracciare un fucile.

Le testimonianze delle donne vittime di violenze sessuali ricordano che esistono delle regole nello stupro usato come arma, fra le quali spicca il rapporto di vicinanza geografica, culturale e sociale tra lo stupratore e la vittima che ne autorizza quasi l’atto e ne acuisce la violenza. 

Le parole di una donna rapita durante la presa di Doboj:

E’ cominciato appena sono arrivata. Durante il giorno rimanevamo in una palestra. Le guardie non ci lasciavano mai sole. Se ci sorprendevano a parlare, portavano una di noi fuori, la picchiavano e un numero di uomini più elevato del solito la violentava. Gli piaceva punirci. Domandavano alle donne se avevano parenti uomini nella città. Ho sentito fare questa domanda a una donna, alla quale hanno portato, in seguito, il figlio di 14 anni, che è stato costretto a violentarla. Quando un uomo non riusciva a violentarmi, usava una bottiglia o un fucile oppure mi urinava addosso. Alcuni serbi del posto indossavano delle calze sulla testa per nascondere il volto e non farsi riconoscere. Comunque ne ho riconosciuti molti. Erano colleghi, medici con cui avevo lavorato. Il primo uomo a violentarmi era un medico che conoscevo da dieci anni. Mi ha detto, ora sai chi siamo e non lo scorderai più”.

Nella Bosnia le prime ad essere violentate sono state le donne più istruite, le più attive, quelle che erano presenti nei quadri dirigenti o intermedi. Si è voluto in questo modo umiliare e annientare quelle donne che avevano responsabilità o potere. Le violenze venivano compiute davanti a testimoni perché l’umiliazione fosse più grande e rimanesse indelebile fino alla fine dei loro giorni.

Sembra impensabile che qualcosa di così bestiale, sia avvenuto oggi, vicino a noi, in Europa, in una società di donne istruite ed emancipate: ma il loro ruolo nella società non le ha protette. Non possiamo non riflettere su questo anacronismo tra l’evoluzione della società e la regressione verso tanta barbarie.

L’orrore crea l’assurdo: le donne stuprate si sentono colpevoli e non vittime. Colpevoli della loro sopravvivenza stessa, rispetto ad altre che sono morte: sentono di essere state tenute in vita perché si sono lasciate violentare; nello stesso tempo sanno di essere comunque morte rispetto al loro futuro perché il marchio di infamia che la donna violentata rappresenta, può essere difficile da sopportare per il resto della famiglia per la quale diventa ricordo dolente della guerra, dell’umiliazione e del fallimento.

Il torto subito e la vergogna che ne provano produce una sorta di annientamento emotivo e di incapacità di rapporti e relazioni.

Ho visto donne che a poco a poco non riuscivano più a parlare nemmeno con i familiari, nemmeno delle cose più banali” – è la testimonianza di uno psichiatra che ha lavorato al Centro per i Diritti Umani dell’ospedale di Zagabria.

E’ giusto comunque ricordare che nell’inferno della guerra nella ex Jugoslavia, non sono stati solo i serbi a macchiarsi di atti criminali. La logica della violenza e del non rispetto assoluto della vita umana ha coinvolto anche altre parti in lotta: le milizie croate di Bosnia e i musulmani stessi. In particolare nella Bosnia centrale si è formata un’armata di migliaia di scampati alla pulizia etnica, che, dopo essere usciti vivi dai campi di concentramento, hanno adottato i metodi usati dalle milizie serbe: “stiamo facendo agli altri quello che è stato fatto a noi”, alimentando così una spirale di violenza totalmente incontrollata e incontrollabile in cui la donna ha continuato ad essere il bersaglio.

Per queste donne, che hanno subito un processo di disumanizzazione, la pace spesso è tanto difficile da vivere quanto la guerra: è una lotta quotidiana contro il ricordo della paura, della privazione, della violenza, della morte. 

Il semplice fatto di nominare il crimine che hanno subito e di dar loro il riconoscimento di vittima può avere un effetto terapeutico e aiutarle a liberarsi del senso di colpa: ma è solo nel marzo  2001 che il Tribunale Penale  dell’Aja, ha definito per la prima volta lo stupro un crimine contro l’umanità, cioè un crimine di guerra condannabile.

Il percorso da farsi però è ancora lungo: fin quando le donne non saranno considerate esseri umani nella loro totalità, continueranno a subire queste violenze e il loro corpo continuerà ad essere uno strumento per regolare i conti tra uomini.

Da qui nasce la necessaria affermazione della loro sovranità sul proprio corpo.

La lotta contro gli stupri e le violenze sessuali in genere è ancora innanzitutto una lotta per il riconoscimento della parità tra uomo e donna.

Sembra assurdo e anacronistico  affermare oggi questo concetto, da molti considerato acquisito: non è così. I fatti continuano a dimostrarci il contrario.

Le parole del Mahatma Gandhi ci aiutano a chiudere la riflessione

 

“Definire le donne il sesso debole è una diffamazione.

E’ l’ingiustizia dell’uomo verso la donna.

Se ci si riferisce alla forza, la forza bruta,

allora sì, la donna è meno brutale dell’uomo.

Se la legge dell’umanità è la non violenza,

l’avvenire appartiene alle donne.”

Anche a tutte quelle donne sopravvissute al dramma di cui abbiamo parlato che tentano faticosamente di recuperare la stima in sé e un senso nella vita fortemente minati da quanto hanno subito,  qualcuna con la forza di impegnarsi in azioni politiche o sociali, la maggior parte attraverso il silenzio della loro sofferenza.

Mariangela Mombelli                                       


da L’arma dello stupro. Voci di donne della Bosnia di Elena Doni e Chiara

Valentini

 

Testimonianza di L. L., serba di 37 anni, stuprata da soldati croati che dicevano di appartenere al gruppo “cavalli di fuoco”:

 “La polizia militare croata arrivò al villaggio di Hasic, dove eravamo scappate con mia sorella, una vicina ed i nostri quattro bambini, ed eravamo state accolte nella casa di un musulmano: gli uomini, che portavano la divisa verde con la cintura bianca, ci ordinarono di tornare al nostro paese e dissero che avrebbero bruciato le case dei musulmani che davano ospitalità ai serbi. La mattina presto del 5 giugno 1992 quindici soldati fecero irruzione nella mia casa e mi ordinarono di andare a chiamare altre tre donne che abitavano vicino. Ci caricarono tutte e quattro in una macchina e ci portarono al loro quartier generale di Posavanska Mahala, poi in due diverse case dove ci violentarono. Ricordo che sette di loro mi violentarono due volte ciascuno: ne contai sette poi svenni. Mi avevano strappato i vestiti di dosso. Conoscevo quegli uomini, erano semplicemente i miei vicini con una divisa addosso: avevano la U di ustascia sul berretto e la croce che gli pendeva dalle catenine al collo. A uno di loro, Marijan, chiesi: ‘Ma cosa ci stai facendo?’ e lui, per tutta risposta, bestemmiò e minacciò di ammazzarmi i figli se avessi fatto parola con qualcuno dello stupro”.

L. L. invece andò alla polizia di Novi Grad e denunciò gli otto che aveva potuto identificare: tra questi c’erano anche un padre e un figlio. La polizia accompagnò la donna da un dottore di Odzak e arrestò i violentatori, [provocando l’immediata reazione dei croati che accusarono la polizia di proteggere i cetnici e attaccarono il commissariato]. I violentatori furono rilasciati dopo breve tempo.

L. L. era stata costretta a lasciare nuda il luogo dove era avvenuta la violenza. Quando protestò dicendo che non avrebbe potuto raggiungere la sua casa in quello stato Marijan le dette un calcio nel sedere ed esclamò: “Vai per i campi! Sei sopravvissuta a quindici di noi, vuoi non poter camminare fino a casa?”

La donna fu soccorsa lungo la strada da un soldato croato in automobile che offrì poi del cioccolato al suo bambino e chiese a lei i nomi dei suoi violentatori, “così che avrebbero potuto liberarsi di quegli individui”.

Testimonianza di Azra, bosniaca sedicenne, catturata e violentata da nazionalisti serbi:

“Ad un tratto mi si avvicinò un uomo e disse: ‘Aspettate. Signorina, io e te non ci siamo già conosciuti da qualche parte?’  Dissi di no, in effetti non lo avevo mai visto prima. Ma l’uomo improvvisamente si ricordò: ‘il tuo ragazzo era nella Difesa Territoriale!’  Fu inutile negare, mi chiamò ‘puttana turca’ e tirò fuori una fotografia di me e Dado davanti alla scuola dov’era la sede della Difesa Territoriale. Gli uomini più vicino a me mi colpirono con il calcio dei fucili, poi venne il peggio. Per primo mi violentò l’uomo che aveva la fotografia: io lottai, gridai, gli tirai i capelli, lui mi colpì con violenza sulla bocca e cominciai a sanguinare. Svenni. Quando rinvenni mi violentò di nuovo. Il dolore era terribile. Mi violentarono in otto, poi svenni di nuovo. Quando riprendevo coscienza non facevo che piangere, gridare, chiedere pietà. Ad un certo punto un uomo sui 35 anni si stese su di me puntandomi la canna della pistola alla tempia e mi guardò fisso negli occhi a lungo. Mentre mi stava addosso un altro uomo passava la lama del coltello sui miei seni, come se stesse disegnando: in realtà mi lasciò dei segni profondi. Fu a quel punto che s’avvicinò un ragazzo che conoscevo di vista: andavamo nella stessa scuola a Prijedor e aveva quattro anni più di me. Prese l’uomo più anziano per una spalla e gli disse di togliersi dai piedi. Il giovane non mi violentò: mi aiutò a rialzarmi e a rimettermi i vestiti. Perdevo molto sangue. Gli altri uomini restarono a guardare ma non osarono intromettersi. Il ragazzo si chiama Mladen ed era una guardia di Trnopolje: gli devo la vita. Quando mi guidò fuori dalla stanza disse agli altri: ‘Sarete ritenuti responsabili di quanto è successo’ e loro gli gridarono dietro ‘all’inferno!’. Tornato al campo, Mladen mi parlò e disse che era disposto ad aiutarmi a scappare: io non volli per non abbandonare mia madre e mia sorella. Quindici giorni dopo fummo scambiate con prigionieri serbi a Maglaj. Da quel giorno ho desiderato solo di avere un fucile per poter andare a combattere. Le ragazze che erano state prese con me e portate in quella casa non fecero mai ritorno al campo”

LO STUPRO ETNICO NELLA EX JUGOSLAVIA

BIBLIOGRAFIA

 

 

 

 

 

 

Doni Elena-Valentini Chiara, L’arma dello stupro. Voci di donne della Bosnia,

 La Luna edizioni, 1993

Guenivet Karima, Stupri di guerra, ed. Luca Sassella, 2002

Piattelli Valentina., Lo stupro etnico, articolo in “Non sopportiamo la tortura” a cura di Amnesty International, ed. Rizzoli, 2000

LE DONNE KAMIKAZE

Il caso ceceno

Il tema del terrorismo, drammaticamente di attualità, ci ha obbligate a confrontarci su un aspetto che ritenevamo non applicabile alla “cultura” femminile: le donne kamikaze.

Donne da considerarsi come vittime o come donne emancipate?

Una domanda che si è resa indispensabile quando abbiamo voluto affrontare la questione della violenza e del terrorismo praticato dalle donne.

Il Gruppo ha sentito l’esigenza di raccogliere le informazioni riguardanti tali problematiche per tentare di dipanare la questione ed elaborare riflessioni sul fenomeno.

Abbiamo constatato subito la difficoltà a reperire notizie sul fenomeno che fossero quanto più possibile corrette e approfondite in quanto i mass-media (quotidiani, Tv, ecc.) in genere tendono a fornire informazioni parziali e superficiali.

Il nostro obiettivo, invece, era quello di tentare di dare una risposta a diversi interrogativi che un simile fenomeno ci sollecitava e, soprattutto indagare, senza pregiudizi, il contesto dal quale nasce il fenomeno delle donne kamikaze.

Cosa spinge una donna a “farsi saltare in aria” e a provocare morte e distruzione quando, invece, da sempre la donna è ritenuta portatrice di valori legati alla vita?

Il fenomeno è complesso e per certi versi nuovo in quanto nella storia anche recente ci sono stati ritratti (spesso dimenticati o oscurati da atti eroici maschili) di donne che hanno sì combattuto e lottato (durante la Resistenza nei lager nazisti ecc.), ma per portare avanti l’ideale di democrazia e di libertà di tutti.

Ciò che spinge, invece, molte donne (spesso giovanissime) a diventare donne-Kamikaze è quasi sempre la disperazione o la vendetta!

Le donne cecene, anche se non sono state le prime della storia, precedute da tamil, kurde, palestinesi, vantano sicuramente un triste primato: tutti i kamikaze ceceni sono donne, una quarantina finora saltate alla ribalta dei mass-media: nel 2001 e nel 2002 quando un gruppo consistente di terroristi ceceni prese d’assalto una scuola di Beslan e quando si impadronì del teatro Na Dubrovke prendendo in ostaggio gli spettatori che assistevano allo spettacolo “Nord-Ost”. Le azioni terroristiche si collocano all’interno della seconda guerra cecena che ha provocato e continua a provocare atrocità e drammi umani sconvolgenti. I cittadini comuni, sono vittime dei saccheggi, degli stupri e degli omicidi perpetrati dai militari russi in assoluta impunità, ma anche vittime dei combattenti ceceni che “orfani” dei leader dell’indipendentismo perché uccisi o emigrati, hanno costituito piccole bande e unità combattenti con l’intento di farsi giustizia da sé. Uno sterminio dunque che avviene sotto gli occhi del mondo e con il silenzio complice dell’Europa.

Questa guerra (definita con l’espressione preferita da Putin “operazione antiterrorismo”) non ha obiettivi chiari, in questo conflitto l’unico obiettivo di ognuno è sopravvivere con qualsiasi mezzo, ecco perché sono tutti moralmente fragili di fronte a un massacro iniquo, fuori controllo.

E’ quindi impossibile fare una valutazione obiettiva su quello che sta accadendo in Cecenia. Perché quei fatti non ci è concesso conoscerli. Uno degli aspetti più inquietanti ed ignoti di tutto ciò, è che in realtà, dopo anni, ancora non si sa (o non si vuole fare sapere) chi stia dietro a tutte queste atrocità.

E’ probabile che il moltiplicarsi delle azioni terroristiche siano il risultato di una coalizione di “schegge impazzite” che contaminano la Cecenia. Schegge certo non poche o poco organizzate. Dopo il tentativo di applicare la politica della “cecenizzazione” si decise di tentare la stessa strategia anche tra la guerriglia cecena.

Tale strategia, teorizzata da una parte dei siloviki (gli uomini dell’ex KGB), consisteva nell’usare i governanti ceceni stessi, imposti dai russi, alla stregua di marionette che nella regione si dovevano comportare obbedientemente come una longa manus di Mosca e che si basava pesantemente sulla buona vecchia politica del “divide et impera” nella società cecena.

Azioni militari, propaganda e bugie di Stato hanno cercato negli ultimi anni di fare esplodere i gruppi di guerriglia ceceni che erano sì indipendenti e di diverse appartenenze (clan) e a volte di opposte fazioni politiche ed ideologiche (un esempio per tutti: Basayev contro Maskhadov), ma sostanzialmente uniti contro un comune nemico. L’obiettivo era quello di “atomizzarli” in una miriade di gruppuscoli cercando di metterli l’uno contro l’altro nella speranza che questo li avrebbe indeboliti e favorito una loro eliminazione finale.

Il contesto bellico in cui ci si muove, tra polizia e servizi segreti russi e wahabiti (fondamentalisti islamici che si rifanno alla scuola saudita) e leader guerriglieri della jamat spesso collusi con i servizi , non è certo rassicurante.

In mezzo a loro ci sono anche le donne.

Non sono però loro a scegliere di uccidere morendo o di morire uccidendo: sono maschi islamici che le scelgono per diventare “carne da cannone, da abbandonare, imbottite di esplosivo, in mezzo a folle di persone innocenti”. Doppiamente vittime dunque: una donna non sceglie di morire, ma diventa martire perché la si trasforma in una persona priva di volontà propria o la si programma psicologicamente. Dopo la morte non viene nemmeno riconosciuta come martire anche perché, a differenza delle donne kamikaze palestinesi che nei loro testamenti sembrano convinte ad immolarsi, alcune delle cecene, convinte non lo sono affatto.

Costrette a diventare kamikaze non per motivi politici o religiosi ma perché non hanno scelta e non possono tornare indietro. A volte rapite o vendute dalle loro stesse famiglie, queste donne vengono reclutate e addestrate in speciali campi. Le aspiranti suicide raramente sono realmente consapevoli del gesto che compiranno per vendicare la morte di un marito o di un fratello, spesso sono manipolate e costrette.

Le testimonianze che arrivano dalla Cecenia parlano, da anni, di torture, esecuzioni sommarie, sparizioni e stupri. Da parte dei soldati federali russi, delle squadre della morte locali, dei mercenari assoldati a contratto. In una cultura che da un lato associa la verginità a un valore economico e il contatto con un estraneo come perdita di purezza e che dall’altro privilegia l’appartenenza a una comunità rispetto al proprio destino personale, la violazione del corpo di una donna lo rende “senza scopo” e priva del futuro, di un futuro sociale. Ogni corpo violato è un corpo disperato a disposizione della propria comunità o almeno di una parte di essa. La risposta alla violenza del proprio corpo diventa allora quella di gonfiarlo di esplosivo.

Se una russa, un’ucraina o un’armena è in grado di sopravvivere a una violenza carnale e impara nuovamente a vivere e persino a sorridere dopo un trauma tanto doloroso e pesante, per una cecena la violenza significa quasi sicuramente la morte! A maggior ragione se ci sono testimoni e se gli uomini della famiglia hanno saputo dell’accaduto. Poco importa che la donna non abbia colpa, quello che conta è che sia stata violentata.

Diventare donna-kamikaze è per molte di loro una scelta obbligata: riscattare l’onore” perduto!

Analizzando le biografie delle attentatrici-suicide cecene si giunge alla conclusione che l’unica ragione che può spingerle a cercare la morte è una tragedia familiare o una vita infelice. Nessuna è andata a morire per un’idea, per la fede o per il suo popolo. Molto spesso è successo che le donne non volevano morire ma non avevano scelta, e persino l’estrema decisione della loro vita, mettere in azione il meccanismo esplosivo, non furono loro a prenderla.

In Russia le donne kamikaze vengono fatte saltare in aria a distanza! Gli uomini non si fanno saltare in aria: danno un valore troppo alto alle loro vite!

Alcune giornaliste, come le russe Julija Juzik, Anna Politkovkaia o americane come Barbara Victor sono riuscite con le loro interviste e con i loro libri a “squarciare un velo” su questo dramma. Ripercorrere la genesi e l’evoluzione di questo fenomeno (anche attraverso le storie delle singole donne) è un modo per capire fino a che punto il conflitto si sia spinto e per denunciare una disuguaglianza che dura fin oltre la morte.

Raisa Ganieva ha 20 anni, è cecena e ha chiesto ufficialmente la protezione della polizia, due sue sorelle, Fatima e Milana, erano fra le donne che attaccarono il teatro di Via Dubrovka a Mosca. Ha raccontato che il fratello Rustam l’ha offerta come kamikaze a Shamiò Basayev, il comandante dei guerriglieri ceceni, per circa 3 mila dollari, la stessa cifra delle sorelle.

Le famiglie di altre quattro ragazze (Aset,Raynan, Ayman e Koki) hanno raccontato che furono rapite, sottratte per essere tenute nell’ignoranza e addestrate a sacrificarsi per uccidere. Quattro mesi dopo l’attentato, un settimanale russo rivelò che tre di loro erano incinte e sollevò dei dubbi sulla loro reale intenzione di uccidersi.

Le loro immagini hanno fatto il giro del mondo. Molti si sono chiesti che cosa avesse spinto queste donne, vestite di nero col volto coperto dal chador e l’esplosivo legato in vita, a partecipare all’attentato nel teatro di Mosca. Non erano vedove, come si era detto inizialmente: i loro mariti erano guerriglieri ed erano lì in teatro.

Una delle kamikaze che si fece saltare in aria a Mosca ad un raduno rock aveva 19 anni. Si chiamava Zelikhan Elikhadzhieva. Il padre ha raccontato che fu rapita e stuprata da un  fratellastro guerrigliero che l’aveva messa in schiavitù per essere poi spinta al martirio con la minaccia.

A tutte queste donne – quelle che non conoscono la verità, quelle che non hanno nulla da perdere, quelle che credono in chi parla loro di Dio e del dovere di vendicare i morti, e che si fanno ingannare – è difficile anche riconoscere un comune alibi: l’idea di porre fine alla guerra che dilania il loro paese da oltre un decennio.

 

Anna Giangaspero

da Cecenia: il disonore russo di Anna Politkovkaja

In una bella mattina di sole alla fine dell’estate 2001, quando era appena finito il coprifuoco, a un incrocio nel centro della città di Argun, in Cecenia, vicino al mercato che cominciava appena ad animarsi, alcuni soldati stavano in cerchio con i fucili puntati verso il basso. Per terra, ai loro piedi, giacevano tre ragazze nude, di tredici o quattordici anni. Non cercavano neanche di rannicchiarsi o di coprirsi con le mani. Erano vive ma probabilmente inebetite. Erano coperte di sangue, lividi e fango. Appeso a un bastone c’era un cartello che indicava il suolo. Diceva: “e’ quello che vi aspetta tutte, troie schifose. Scoperete tutte con noi”.

Poco a poco intorno a loro si era raccolta una folla, nessuno aveva dubbi su cosa fosse successo. Alcune donne si strappavano il velo e le commesse si toglievano il grembiule per coprire le ragazze, prima di tutto la faccia, per non farle riconoscere. Gli uomini si voltavano dall’altra parte e continuavano per la loro strada.

“Chi siete?, chiedevano le donne. Le poverette tacevano. “Dove sono i vostri genitori? Dove vi dobbiamo portare?” insistevano le donne, ma le ragazze rimanevano in silenzio.

Un silenzio assoluto.

Poi era arrivata una donna molto conosciuta e rispettata ad Argun. Una maestra. Senza fare domande, aveva fatto trasportare le ragazze violentate a casa sua. Poi, molto rapidamente, in un’altra località, e poi in un’altra ancora… Per far sparire per sempre le loro tracce. Era la loro unica possibilità di sopravvivenza.

Anche i soldati erano andati via, fieri dell’effetto ottenuto. Nessuno aveva cercato di fermarli, neanche di seguirli per scoprire la loro identità. Nessuno aveva chiamato il medico o la polizia, nessuno aveva chiesto perizie o offerto testimonianze, nessuno aveva fatto denunce. Tutto era finito lì.

Queste sono le tradizioni locali. Se la cosa avesse seguito un percorso giuridico normale, le ragazze cecene avrebbero avuto la certezza di morire per mano degli uomini delle loro stesse famiglie.

da Le fidanzate di Allah di Julija Juzik

Zarema a ventitre anni avrebbe già dovuto essere morta due volte. La prima volta a Mozdok, una cittadina riservata ai militari, facendosi saltare in aria insieme all’autobus che trasportava i militari russi.

Non ce l’aveva fatta. Allora l’avevano portata a Mosca: nel luglio 2003 avrebbe dovuto far saltare in aria il Mon-Cafè. Di nuovo non ce l’aveva fatta ad uccidersi!

Un’attentatrice fallita. Zarema si consegnò ai poliziotti, la portarono via per interrogarla, ma lo sminatore che cercava di disinnescare l’ordigno che lei aveva dentro la borsa morì durante il tentativo. Per oltre sei mesi rimase in attesa del processo in una cella del carcere di Lefortovo.

Durante questo periodo in un’unica occasione rese pubbliche le sue riflessioni.

Zarema, lei decise di diventare un’attentatrice di sua volontà o perché costretta da altri?

Zarema – Di mia volontà. È successo semplicemente così. Non c’era nessuno a cui rimanere legato. Genitori non ne avevo. Mia madre mi aveva abbandonato quando avevo dieci mesi. Mio padre è stato ucciso mentre faceva dei lavori in Siberia, quando ho compiuto sette anni. Sono cresciuta con i nonni. A diciannove anni mi sono sposata. Lui si chiamava Hasan. Aveva vent’anni più di me. Non avevo un vero fidanzato, lui era stato un po’ a guardarmi per bene, in più era ricco. Mi rapì come usa da noi: venne la sera, mi fece un segnale con i fari della sua BMW, io uscii di casa e lui mi portò via con sé. Rimasi incinta quasi subito; quando ero al secondo mese di gravidanza spararono a mio marito uccidendolo. Faceva affari con i metalli, doveva aver fatto uno sgarbo a qualche concorrente. In seguito andai a vivere con la sua famiglia. Ebbi una bambina, le misi nome Rašana, l’ho allattata fino a sette mesi. A quel punto bisognava prendere una decisione, la bambina stava crescendo senza un padre. I nonni si rifiutarono, dissero che non avrebbero cresciuto anche lei. Così mia figlia se la prese il fratello di mio marito.

Mi rispedirono a casa a rifarmi una vita. Sì, questo da noi è normale. Non ci sarebbe stato niente di male, ma io volevo molto bene a Rašana. Soffrivo da morire. Allora decisi di prendere dal baule della nonna i gioielli di una delle mie zie: anelli, orecchini, braccialetti. Ci aggiunsi i miei tre anellini e portai tutto al mercato in Inguscezia, li vendetti velocemente per seicento dollari. Poi andai da mia suocera e le chiesi se potevo portare Rašana a fare una passeggiata. La presi e corsi all’aereoporto. Pensavo di andarmene da mia zia a Mosca e poi si vedrà. Non potevo vivere senza la mia Rašana!

Mi rovinò il biglietto che avevo lasciato alla nonna, in cui dicevo che, forse, avrei preso l’aereo per Mosca insieme a Rašana. Che stupida! All’aereoporto c’erano ad aspettarmi tutte e sei le mie zie. Si misero a gridare, mi picchiarono, mi tolsero la bambina, la riportarono ai parenti di mio marito, e mi chiamarono ladra. Tutti i miei parenti lo seppero. Le zie mi tormentavano, arrivavano e giù a insegnarmi l’educazione. Mi picchiavano. Mi urlavano: “Che tu possa morire!” E così pensai: perché no? Andai da Raisa Ganieva, le dissi che volevo offrirmi in sacrificio e che mi servivano anche dei soldi per restituire un prestito ai miei.

Seguirono, nella vita di Zarema, vicissitudini senza precedenti. Raisa Ganieva presentò Zarema a suo fratello Rustan, che la portò in montagna dai guerriglieri. Le chiesere cosa voleva; lei rispose che voleva offrire la propria vità per restituire un prestito ai suoi familiari.

Disonorata, rifiutata, privata della sua bambina, Zarema decide di uccidersi non soltanto per restituire il debito alla sua famiglia. Decide di compiere questo passo perché si rende conto che nella sua vita non c’è, né ci sarà mai, nessuna felicità.

Zarema – Allora mi resi conto che non avrei più visto niente di buono nella mia vita. Non avrei più rivisto Rašana, ormai il fratello di mio marito l’aveva adottata ufficialmente.

Era finito tutto. Mi sarei potuta risposare solo con un vecchio o come seconda o terza moglie.

Avevo derubato la zia: che vergogna; avevo cercato di rapire mia figlia: che vergogna; me ne ero andata di casa, per di più per andare dai wahhabiti, un’altra vergogna; volevo far saltare in aria i russi, non ce l’avevo fatta, ancora vergogna”.

Cosa è successo a Mosca?

Zarema – Il 9 luglio mi sono svegliata presto. Mi sveglio sempre prima che sorga il sole per abitudine, senza sveglia, per la preghiera del mattino. Ho recitato le preghiere, ho stirato la roba che la sera prima avevo lavato. Dopo, quando fecero la perizia delle mie cose dissero che su di loro non c’era traccia di vita. E’ giusto, io le lavo spesso. Ruslan e Andrei uscirono e poi ritornarono con una borsa di stoffa nera a tracolla e la cintura da martire.

Io non volevo uccidere nessuno. I nostri non conoscono la vita in tempo di pace, non sanno cosa sia. Se lo sapessero non ucciderebbero neanche loro. Se non ci fossero le začistki [i rastrellamenti tra i civili dei russi alla ricerca di terroristi] da molto tempo non si saprebbe più dove andare a cercare nuovi attentatori. I wahhabiti approfittano del fatto che ci sono le začistki. Quando sono arrivata a Mosca e ho visto come vive la gente, ho capito che non mi sarei mai fatta saltare in aria. Io non ho mai avuto vestiti come quelli che ho visto nelle vetrine. Nessuna delle nostre ragazze li ha mai avuti. Nessuna di loro si farebbe saltare in aria se vedesse che negozi ci sono… E poi io voglio così tanto rivedere la mia bambina. Me la sogno spesso. I wahhabiti mi avevano promesso che tutti i giovedì sarei potuta scendere dai cieli per vederla. Ma non gli ho creduto. Loro non ci sono mai stati in paradiso, come fanno a saperlo? L’unica possibilità che io ho di rivedere Rašana è qui, sulla terra.

LE DONNE KAMIKAZE

Il caso ceceno

BIBLIOGRAFIA

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Petricca Tiziana, Le “cattive”, frustrate e perdenti, articolo su Noi donne , agosto-settembre 2005

LA LEGGE FRANCESE SULLA LAICITA’ ED IL VELO ISLAMICO

La legge francese n. 228 del marzo 2004, proposta dal presidente Chirac, in applicazione del principio di laicità, vieta agli studenti di scuole, collegi e licei pubblici, di indossare segni o capi d’abbigliamento che manifestino in modo ostentato un’appartenenza religiosa. Essa, all’articolo 1 afferma che “E’ proprio la neutralità della scuola che assicura il rispetto della libertà di coscienza degli alunni, l’uguale rispetto di tutte le convinzioni”.  Tale legge prevede, come sanzione estrema, l’espulsione dalla scuola.

I problemi e gli interrogativi che si aprono appaiono complessi, contraddittori e di difficile risoluzione, evidenziandosi tuttavia come estremamente rilevanti. Tali problemi non riguardano unicamente i Francesi, ma tutti gli Europei. Meglio ancora si potrebbe dire che  sono di natura globale. Infatti, essi richiamano il tema della convivenza in una società multietnica, il difficile rapporto fra politica e religione, la relazione fra il diritto alla diversità ed il principio dell’uguaglianza. Ed inoltre conducono a domande sulla condizione della donna in una società occidentale ad alta presenza d’immigrati. Allo stesso tempo, rimandano alla condizione della donna in senso lato.

Perché dire tutto questo?

L’obbiettivo della legge, vero e dichiarato, è il velo delle Musulmane.

Ma perchè prendere di mira proprio le donne? E cosa rappresenta il velo per loro? E per noi Occidentali?

Come mai la Francia è arrivata ad aver necessità di una legge di questo tipo, per altro molto dibattuta?

I fondamenti della laicità in Francia risalgono agli anni ’80 del 1800; la Francia è stato il primo paese europeo a decidere, nel 1905, la separazione fra Stato e Chiesa, distinguendo nettamente  ciò che è pubblico da ciò che è privato, in coerenza con la tradizione cristiana europea che concepisce la religione come una questione individuale, appartenente alla coscienza d’ogni persona.

 “questa laicità è preziosa: è la base stessa del riconoscimento dell’individuo, la base del sistema democratico.” (Tahar Ben Jelloun, La repubblica, 30.8.2004)

In Francia c’è la più grande comunità islamica d’Europa, si tratta di circa 5 milioni di persone che vivono per lo più ai margini delle città, ghettizzate nelle degradate periferie parigine, dove la disoccupazione arriva al 40% (la media nazionale è al 9%), dove i diritti di cittadinanza trovano scarso riconoscimento. Queste dure condizioni, peggiorate negli ultimi dieci anni, hanno aumentato frustrazioni e malcontenti che facilmente conducono a radicalizzare la propria identità d’origine e a rimarcare le proprie differenze.

Da qui una maggior diffusione del velo femminile.

Nei quartieri periferici d’immigrati le donne diventano vittime del fondamentalismo religioso: frequenti sono gli stupri collettivi perpetrati da uomini mussulmani verso donne non velate, o verso donne che si truccano o vestono all’occidentale ed escono di casa da sole.

Sono le altre donne della propria cultura che affermano: “Non si è velata, quindi se l’è andato a cercare”. Frase che per noi occidentali risuona come un “dejà vu”, frase che ci riporta dalle nostre parti, non poi tanti anni indietro.

Sono le stesse donne che, vivendo nell’ambiente sociale del tutto islamizzato dei quartieri-ghetto, hanno fatto la scelta religiosa di indossare il velo.

Levy Laurent, padre di due ragazze che si rifiutano di togliere il velo a scuola, dice: “La totale e intensa fede in Allah, che traducono nel massimo rispetto delle norme coraniche, è scattata quando hanno visto la nonna materna di fede islamica pregare. Il fatto di vivere nella banlieue della capitale, ha portato le ragazze ad instaurare amicizie solo con figli di immigrati di fede islamica.”

I contrasti culturali ed economici fra i Francesi ed i suoi immigrati sono evidenti. Ed ambivalenti.

“I miei genitori appartengono alla seconda generazione di immigrati, una generazione divisa tra il desiderio di libertà che promette la Francia e quello di non dimenticare le proprie radici” (Samira Bellil “Via dall’inferno”)

I Francesi avevano gestito le immigrazioni precedenti (Italiani, Polacchi) con un modello integrazionista che ora non sembra più reggere, in quanto le popolazioni di origine mussulmana non sono facilmente assimilabili, perché la loro religione è volta principalmente all’esterno, alla formazione di comunità morali ed è quindi  totalizzante.

 “Ma quello che viene fuori oggi, con i processi di transnazionalizzazione, è che il rapporto fra religione e politica non è risolto una volta per tutte: l’epoca delle identità religiose non è finita, mentre la crisi delle identità nazionali è già cominciata.” (intervista di Ida Dominijanni a Etienne Balibar, Il manifesto, 4.9.2004)

Le donne velate sembrano essere il nodo attraverso cui passa questa ripresa di identità religiosa e questa fragilità dello Stato occidentale laico.

Ma cos’è il velo? Cosa simboleggia e perché è indossato?

Il velo è un particolare capo d’abbigliamento che può prendere diverse forme secondo le varie culture. Può coprire testa e capelli, scendere fino al petto, coprire tutto il corpo e parte del viso o tutto il viso. Essere colorato o tutto nero. Fatto portare fin da bambina o dall’adolescenza, per sempre o fino alla menopausa.

Sembra provenire da  una tradizione indoeuropea.

Infatti lo stesso diritto canonico cristiano afferma che gli uomini devono assistere alla messa a capo scoperto, mentre le donne devono portare il velo in testa. San Paolo dice: “ L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna ma la donna per l’uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli.”

Ricordiamo le nostre nonne, in particolare le meridionali, tutte vestite di nero col fazzoletto in testa.

Invece la Sura 24 verso 31 recita: “ e dì alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar scendere il loro velo fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti al altri che ai loro mariti, ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai figli dei loro mariti, ai loro fratelli, ai figli dei loro fratelli, ai figli delle loro sorelle, alle loro donne, alle schiave che possiedono, ai servi maschi che non hanno desiderio, ai ragazzi impuberi che non hanno interesse per le parti nascoste delle donne. E non battano i piedi sì da mostrare gli ornamenti che celano. Tornate pentiti ad Allah tutti quanti, o credenti, affinché possiate prosperare.”

Dapprima il velo è indossato dalle donne dell’harem per distinguerle dalle altre, poi dalle donne di classe agiata, in seguito esteso a tutte, come segno del loro pudore e della loro dignità.

Il velo assume chiaramente, dietro l’alibi religioso, una funzione simbolica: di inferiorità femminile e/o di controllo della sessualità.

Sempre e comunque è simbolo di potere degli uomini sulle donne.

E quindi, in questo senso, il velo appare ben distintamente come segno di oppressione del maschile sul femminile.

Ma ci sono altri motivi, oltre a quello oppressivo degli uomini musulmani che temono la libertà delle donne, ci sono ragioni più sottili e meno appariscenti, che portano le donne musulmane di Francia  ad indossare il velo.

Molti elementi conducono a pensare che alcune di queste donne portino il velo per libera scelta, come del resto molte di loro affermano. I motivi sono diversi.

Vi è ad es. una rilettura dell’Islam da parte delle ragazze di seconda o terza generazione. Queste adolescenti sono più radicali dei loro genitori rispetto all’uso del velo, vivono una rottura rispetto alla cultura della propria famiglia.

“c’è differenza fra il mio Islam e quello dei miei genitori, il mio è vero Islam, il loro è tradizione. Ho portato il velo a sedici anni, sono stata la prima a portarlo al collegio, sono stata sospesa tre giorni, non potevo assistere a certi corsi. E’ stato duro per i miei genitori che io portassi il velo, non capisco perché. Per loro il foulard si porta quando ci si sposa. Loro non tollerano i problemi che ho a scuola a causa del foulard”. (da “Le port du voile, instrument de libération? di Duprez-Leclerc-Olive in PROBLEMES  n. 909 del febbraio 2005)

 

Per altre donne il velo è uno strumento che permette loro di uscire di casa da sole, di poter parlare pubblicamente con degli uomini, di non essere importunate, di lavorare fuori casa senza mettere a repentaglio la propria reputazione. Può capitare di vedere delle ragazze sugli autobus che, quanto sono in prossimità del loro quartiere, estraggono il foulard dalla borsa e lo indossano.

Per altre ancora, portare il velo è un atto prettamente politico. Esso non è più soltanto un simbolo religioso, ma un modo per dichiarare la propria moralità, contro lo stile di vita occidentale, forse contro la laicità stessa. In una manifestazione a favore del velo da parte di giovani musulmane all’inizio del 2004, in uno striscione compariva il messaggio: “Francia, sei la mia patria. Hijab (velo), sei la mia vita”. Altre, sventolando la tessera elettorale, tenevano un cartello con scritto “Un velo = un voto”, ribadendo il loro diritto alla cittadinanza.

Queste contestazioni hanno acceso il dibattito politico, anche all’interno della Sinistra, che si è spaccata: ad un attacco politico si deve rispondere con un altro attacco (fare la legge)? Oppure è giusto lasciare a queste donne la libertà di essere oppresse, anche se sembra una mostruosa contraddizione?

“come è possibile che una sinistra che si dice femminista accetti di velare le donne, rinnegando tutta la lotta politica sui diritti e sul luogo di oppressione delle donne, che è il corpo? …io non accetto una cultura politica che discrimina le donne.”

“molti hanno contestato il mezzo oltre che il fine, ritenendo che una questione riguardante costumi e mentalità non possa essere risolta in modo autoritario con una legge: il mezzo giuridico sarebbe inadeguato, se non pericoloso, poiché configura un antagonismo fra l’islam e la repubblica”

(intervista di Anna Maria Merlo del 28.9.04 Il manifesto)

 

Ciò che si configura in Francia è la convergenza dello scontro culturale in atto sul corpo delle donne: sul velo, simbolo ben visibile della cultura musulmana formatasi attorno ad una ben precisa concezione femminile.

I Francesi, in nome dei principi occidentali, vogliono liberare le donne dall’oppressione del velo, senza tener conto che anche l’Occidente ha i suoi simboli, i suoi condizionamenti al riguardo: la top model, la velina, la donna che mette in evidenza il suo corpo seducente, donne magre, ben fatte che devono mostrare, provocare. Modelli di stile capitalistico, che rimandano comunque alla donna oggetto per l’uomo, esposta e mercificata. Anche la religione cattolica pone divieti alle donne sue seguaci: per es. proibisce l’aborto ed il ricorso a pratiche contraccettive come la pillola o il profilattico.

I Musulmani, in nome della loro religione, chiedono la libertà di opprimere le donne col velo. Il che pare una vera e propria contraddizione in termini.

Ma perché tanto accanimento sul velo?

Da sempre la donna si trova all’incrocio fra natura e cultura, fra il grande potere di dare la vita e le forti regole repressive che la condannano a condizione d’inferiorità. Essa è amata e allo stesso tempo odiata e temuta dagli uomini, comunque simile, ma estremamente diversa, portatrice di misteri naturali.

Ai primordi, i maschi, per avvalersi dei vantaggi sociali di sicurezza reciproca, hanno sentito la necessità di ridurre il conflitto fra loro nella lotta per le femmine, tanto da creare delle regole (morali) per la gestione della propria sessualità e di quella delle femmine.  Regole pattuite fra maschi, per risolvere problemi fra loro. Regole quindi decise da una parte dell’umanità che, però, ricadono a totale svantaggio dell’altra metà, che probabilmente ha dovuto sottostare per ragioni di maggiore debolezza fisica e per poter assicurare maggiore protezione alla prole.

Quindi, da sempre, le donne sono scambiate fra gli uomini: ora come bottini di guerra, ora come ricompensa per gli eroi od attraverso i matrimoni combinati. Le donne circolano come oggetti.

Lo scontro in atto in Francia è quello che si perpetua da sempre: le culture dominanti (che sono tutte di impianto maschilista perché create dagli uomini) cozzano fra loro sul cardine stesso da cui hanno cominciato a formarsi e a cui danno grande rilievo: quello della concezione e della gestione della donna. Accordi o disaccordi passano attraverso questo nodo cruciale.

Di fatto, lo Stato francese dietro la facciata femminista, sembra esercitare una forma di dominio, di  imperialismo, che penalizza le donne musulmane.

Emerge così distintamente che le suddette donne sono assoggettate a tre tipi d’oppressione. In primo luogo esse sono oppresse e condizionate dalla cultura musulmana estremamente maschilista; in secondo luogo sono limitate nella loro libertà di portare il velo dalla Repubblica francese, in terzo luogo, con l’espulsione dalla scuola, esse sono private del diritto all’istruzione nella scuola pubblica, con conseguenze, sì, in questo caso, disastrose ai fini emancipativi.

“le alunne sono dunque in prima linea, e saranno le sole a subire i rigori della legge, mentre gli integralisti ne usciranno indenni. Anzi, se ne avvantaggeranno, diventando i soli interlocutori delle ragazze espulse. Potranno controllarle e indottrinarle più che mai, creando le loro proprie scuole coraniche o reti di sostegno scolastico. “ (Pierre Tevanian)

In ultima analisi, si propone la seguente riflessione.

Ci possono essere varie strade emancipative, secondo il momento storico ed il luogo. Perciò non è detto che la strada delle donne occidentali sia l’unica possibile. E di conseguenza l’emancipazione non può essere imposta dall’alto, ma al contrario, è una forma di crescita, di conquista, alla quale si può arrivare tramite percorsi d’autodeterminazione, in situazioni di libertà di scelta. Quindi quelle donne che scelgono di portare il velo, quando potrebbero non portarlo, fanno una scelta di autonomia, che va rispettata, anche se questo tipo di scelta non piace.

Inoltre, se ci guardiamo indietro, le donne da sempre hanno chiesto per loro dei diritti. Mai divieti o punizioni per altre donne. Hanno chiesto invece punizioni per gli uomini che non rispettano questi diritti.

Continuare seguendo questo tracciato, continuare a chiedere la libertà di scegliere e di comunicare: questa è la strada maestra da percorrere, nella direzione, fra l’altro dall’associazione “Ni putes, ni soumises” (né puttane, né sottomesse”), nata da ragazze magrebine delle periferie degradate per far fronte ai problemi concreti di violenza, ma poi allargata alle militanti femministe per affrontare il problema della regressione in genere dei diritti della donna.

“Ni putes, ni soumises ha permesso di liberare un’onda di rivendicazioni da parte di donne molto diverse per età, condizione sociale e cultura, che si sono riconosciute nell’esperienza di queste ragazze d’origine magrebina”. (Magali Amougou, d)

Autodeterminazione e dialoghi interculturali sono gli obbiettivi cui le donne tutte insieme devono tendere per ottenere maggiore giustizia sociale, a partire dalla giustizia sociale principale, che è quella di dare uguale valore ai due generi, nel rispetto delle reciproche differenze.

Le donne, anche se da sempre sono vittime dei conflitti maschili, pur da sempre sono portatrici di vita e quindi dei valori legati ad essa (ad es. dei valori della protezione dei più deboli, della salute, della cura).

Negoziazione, concertazione, mediazione, risoluzione pacifica dei conflitti, lotta per qualcosa e non contro qualcosa: sono queste le parole chiave della cultura femminile, che si è depositata storicamente sia per cause naturali che sociali.

Le donne, insieme, valorizzando i loro saperi e rimanendo fedeli ad essi, possono divenire, così, nuove speranze di pace.  

Laura Gallerani


 

 

 

da Leggere Lolita a Teheran di Azar Nafisi

 

 

 

Il nuovo Comitato per la rivoluzione culturale volle incontrare i docenti di due facoltà, quella di Giurisprudenza e Scienze politiche e quella di Persiano e di Lingue e Letterature straniere, nell’auditorium della Facoltà di Giurisprudenza. Nonostante le raccomandazioni più o meno formali alle docenti e alle impiegate, fino a quel giorno la maggior parte di noi non aveva rispettato le regole. Quell’assemblea fu la prima in cui tutte le partecipanti portavano il velo. O meglio, tutte tranne tre: Farideh, Laleh e io. Sfruttando la nostra fama di eccentriche, ci presentammo a capo scoperto.

I tre membri del Comitato sedevano piuttosto a disagio su un palco molto alto con un atteggiamento fra il nervoso, l’altero e l’arrogante. Quell’assemblea fu l’ultima in cui i docenti osarono criticare apertamente il governo e la sua politica per l’istruzione superiore. Molti pagarono quel coraggio con l’espulsione.

Farideh, Laleh e io, le bambine cattive, eravamo sedute una accanto all’altra. Era impossibile non notarci. Parlavamo, ci consultavamo, continuavamo ad alzare la mano per intervenire. Farideh denunciò gli abusi e le intimidazioni che i membri del Comitato infliggevano agli studenti, anche all’interno dell’università. Io dissi che la mia integrità di insegnante e di donna era compromessa dall’imposizione ricattatoria del velo, in cambio di qualche migliaio di tuman di stipendio. Il problema non era il velo in quanto tale, ma la libertà di scelta. Mia nonna si era rifiutata di uscire di casa per tre mesi, quando altre leggi l’avevano costretta a toglierselo. Io sarei stata altrettanto tenace nel mio rifiuto di portarlo. Non sapevo che di lì a poco quel rifiuto avrebbe potuto costarmi il carcere, la fustigazione o addirittura la vita.

…Accanto al muro, siedono due ragazze iscritte all’Associazione degli studenti musulmani. Ogni tanto, da sotto il chador nero da cui spunta solo il naso, affilato per l’una e piccolo e all’insù per l’altra, chiacchierano; a volte addirittura sghignazzano.

C’è qualcosa di strano nel modo in cui portano il chador. L’ho notato in molte altre donne, soprattutto giovani: i loro gesti, il modo in cui si muovono non hanno niente della timida ritrosia di mia nonna, che con ogni gesto supplicava e ordinava a chi la guardava di ignorarla, di scansarla, di lasciarla in pace. Per tutta la mia infanzia e l’adolescenza, il chador della nonna ha mantenuto per me un significato speciale. Era un rifugio, un mondo a parte. Ricordo come se lo avvolgeva attorno al corpo e come camminava nel cortile quando i melograni erano in fiore. Ora, il chador era stato macchiato per sempre dalla connotazione politica che aveva assunto. Era diventato una cosa fredda e minacciosa, che le ragazze portavano con arroganza.

   Mia nonna, la musulmana più devota che avessi mai conosciuto..; la nonna scansava la politica come la peste. Si lamentava perché il velo, che per lei era il simbolo del suo sacro rapporto con Dio, era diventato uno strumento di potere, trasformando le donne che lo portavano in simboli politici.

da Lettera a mia figlia che vuole portare il velo di Lejla Djitli

 

 

 

 

Le cipolle che sfrigolano nell’olio coprono la voce di mia figlia. Non ho capito bene quello che mi ha appena detto piano. Lo ripete a voce alta:

– Voglio portare il velo.

Mi volto. Non le dico niente, ma la fulmino con lo sguardo. Lei continua, ancora più aggressiva:

– E’ importante, mamma, è la mia religione. Sono musulmana e sono fiera di esserlo. E’ la mia identità, non posso più nascondermi.

– Taci, Nawel! Non sai quello che dici!

– No, so perfettamente quello che dico! Non voglio più fingere, non voglio fare più come te, non voglio più ‘giocare a fare la francese’ … La mia origine è un’altra, lo capisci? E poi, sono stufa di tutte quelle puttane!

Il tono sale. Il suo viso diventa rosso, le vene del collo si tendono nervosamente.

– Nawel! Smettila! Smettila subito!

– No che non la smetto! Sei cieca? Credi che meritino rispetto? Mi vergogno per loro! Non voglio vivere in quel modo, e tu, invece di incoraggiarmi … Ne va anche del tuo onore! Io voglio essere rispettata.

– Va’ in camera tua! Va’ a fare i compiti!

– Tra poco sarò maggiorenne e non potrai impedirmelo. Non so nemmeno perché te ne ho parlato. Forse mi aspettavo che fossi più comprensiva.

Resto pietrificata, le spalle rivolte al fornello. Le parole sono bloccate.

Dalla finestra mi arriva la tua risata, spensierata e leggera. Non ho bisogno di affacciarmi per sapere che sulla tua panchina preferita, di fronte al fabbricato, Patrizia, Sihem e Sara, le tue amiche, ti fanno compagnia. Non ho bisogno di ascoltare. Le vostre risa soffocate mi bastano per sapere qual è l’argomento che vi diverte: i ragazzi. Tutto sembra facile, normale, anche la tua spensieratezza! Sei così giovane. Avrei dovuto sospettare? Ma sospettare cosa? Che un giorno una bomba mi sarebbe esplosa in faccia? E che sarebbe stata mia figlia a lanciarla? Innescata da chi, poi? Perdonami, tesoro mio, la battuta è di cattivo gusto, tuttavia l’effetto non potrebbe essere diverso: sono frastornata. Il velo! Vuoi portare il velo! E che altro ancora? Come se fosse importante. Come se io, tu, tutti quanti, non avessimo altre gatte da pelare. Come se il velo, a causa delle nostre origini, ci riguardasse per forza …

LA LEGGE FRANCESE SULLA LAICITA’ ED IL VELO ISLAMICO

BIBLIOGRAFIA

 

 

 

 

 

 

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CONCLUSIONI

Con questa iniziativa – oltre le considerazioni già fatte finora – noi abbiamo anche inteso da un lato tenere viva l’attenzione sugli interventi di sostegno che molte organizzazioni di donne stanno ancora realizzando nei confronti delle donne della ex Jugoslavia (in particolare della Bosnia), molte delle quali si trovano ora a sopportare le conseguenze degli stupri che hanno subito e ad allevare figli e mandare avanti paesi in cui gli uomini sono stati decimati [le conseguenze della guerra non ricadono solo sulle donne].

Da un altro lato abbiamo inteso creare un’occasione di conoscenza su aspetti per i quali la superficialità dell’informazione è la norma: chi ci ha raccontato qual è la realtà della guerra cecena, al di là degli attacchi terroristici e della “novità” delle donne kamikaze?

Da un altro lato ancora abbiamo inteso rendere chiaro come può essere facile – e al limite condivisibile – decidere per gli altri – anzi, per le altre – , quando si tratta di ribadire le nostre convinzioni.

Pur trattando questioni che – almeno in parte – riguardano donne appartenenti ad altre culture, non abbiamo volutamente inteso toccare il tema , pur fondamentale, del relativismo culturale, della multiculturalità, di cui si è discusso e si discute molto; né abbiamo voluto – da consapevoli e ‘liberate’ donne occidentali – proporre soluzioni alle nostre sorelle “altre” e più oppresse di noi. Molte di loro sanno benissimo qual è la posta in gioco e si sono già organizzate, o lo stanno facendo, per trovare la loro via alla liberazione dall’arbitrio maschile.

In realtà, la motivazione di fondo che ci ha portate a realizzare questo progetto è la necessità di continuare a ribadire il diritto delle donne a decidere autonomamente di sé e del proprio corpo e di dare evidenza ad alcune – tra le tante – situazioni in cui questo diritto non è riconosciuto. Si tratta di un diritto umano fondamentale.

Sappiamo che l’essere riconosciute titolari di diritti significa acquisire potere, e qui sta il nodo delle resistenze e delle negazioni.

Ma sappiamo anche che è solo attraverso il riconoscimento di tali diritti che possiamo pensare a un mondo senza conflitti armati, senza guerre, a un mondo di pace. Non a un idilliaco mondo di pace, ma a un mondo in cui i conflitti che, in senso positivo, sono il sale del nostro vivere comune – vengano affrontati e risolti senza morti e senza violenze, nel rispetto reciproco, nel riconoscimento e nella contemperanza dei diritti di tutte e di tutti.


EPILOGO

Vogliamo chiudere queste nostre riflessioni con l’invito a non accettare il sacrificio e a ribadire il proprio diritto all’esistenza rivolto da Anna Lombardo a una donna kamikaze.

Anna Lombardo è una poeta veneziana, traduttrice di poeti, impegnata in molte iniziative contro la guerra.

L’invito è rivolto tramite Didone, la regina di Cartagine che – secondo il mito, ripreso da Virgilio nell’Eneide –, disperata per l’abbandono da parte di Enea e insidiata dal re di un paese vicino, alza una grande pira e si dà la morte tra le fiamme.

Ma quella che Anna Lombardo ci propone è una Didone pentita.

Didone ad una kamikaze

Voglio venirti in sogno ogni notte

sciogliere lacrime tue

inconcludenti

sono sorella a te lontana

ma ora ascolta la speranza

Quando il vento venne

a parlarmi delle grandi sventure

che egli aveva dietro e innanzi

– io che tutte le conobbi –

fiduciosa e solidale

offrii la mia gente

potei salvarlo dalle acque, certo,

ma il fato stava stretto dentro l’antro

e lui, più che al sole e alle gioie nostre,

a quello s’infiammò mestamente!

Più neanche il sogno

della grande mia Cartagine

bastò al cuore gonfio

salii quella pira

come fosse là il luogo dell’incontro

credendo che da lontano

il fumo l’avrebbe richiamato

inutili, sorella, gli sforzi miei

ed ora da questo lato

vedo sbiadire le rosse fiamme

son qui per avvisarti:

non bruciare gli anni tuoi

che sono belli e gli unici che avrai

ascolta, ascolta questo pianto

e dimmi: quanto valse la mia pena?

Io te lo dico segnando il giusto passo

a nulla vale quando

l’amato l’anima sua non presta

ecco, ti vedo intenta

a preparar con cura ogni tua mossa

ad allacciare quei mortaretti stretti

– eh sì, lo scoppio sarà grande

la paura e lo sgomento anche

ma a te piccole briciole resteranno

a guardare con raccapriccio le alte stelle.

Io che salii la pira

io giuro forte a nulla valse la mia morte

e il desiderio di amene passeggiate

sguardi obliqui al nostro mare

il vento mattutino tra i capelli

sonore risa di sorelle, avide mani sulla creta

pesa ancora a me come macigno

Non più tempi è ora di sacrificio

– la terra lo ripudia, mia compagna! –

lascialo agli stolti ignari

di quanto può essere dirompente

la vita tua tutta proseguire

il fiume tutto quanto risalire

con la certezza non solo speranza

di aliti tuoi a riempire quest’aria

che già d’attorno si va profumando

di salite e dolci rose da inseguire

io non ti dico proprio ciò che devi fare

ma spegni il fuoco che non ti appartiene

e vesti il corpo sole con la luna

restituendoti, o mortale,

i sogni impetuosi dei bambini

e vela poi le tue forti navi

ché l’occhio stanco è di strabuzzare

con stinte sottovesti lungo il mare

parti spegnendo ogni pira

che il fumo potrebbe provocare

Loro di me trassero rime

cullarono per troppo la mia pena

– a te confesso senza vergogna

che lesta fu ad abbandonarmi

e come scintilla a terra cadde spenta –

ma tu prendi la mia più bella parte

guarda le tue mani e dissotterra

quell’alba che per troppo fu tramonto

e corri fuori, dillo a tutti:

Didone per sempre vi abbandona

e maledice quella stirpe

che il fuoco ama più del suo calore

e che, potendo, adesso di certo quella pira

giammai più le infiammerebbe il cuore.


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